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Daisy Bullet. La visione di Simone Russo

Aggiornamento: 21 mag

Conversazione con Simone Russo





Il blog di Cattive Produzioni è un luogo dedicato all'approfondimento dei cortometraggi nel catalogo di distribuzione. Una conversazione tra il CEO dell'azienda, Marco Mingolla, e gli autori.


1. Partiamo dalla scintilla. Come nasce Daisy Bullet e perché hai deciso di produrlo? Ti ha ispirato la situazione politica globale, quindi l'attualità, o sei partito da una riflessione personale sulla guerra?


Ad essere del tutto onesto Daisy Bullet nasce inizialmente come progetto per uno di quei festival dove, in un tempo ristretto di circa due settimane, bisogna cercare di portare a termine un cortometraggio. Poi la realtà è che poco prima in quel periodo era scoppiata la guerra fra Russia e Ucraina che aveva accesso in me, come in molti altri, diversi pensieri e ricordi. Da piccolo fino ad essere ragazzino, ho partecipato come attore in diversi spettacoli teatrali che trattavano il tema della guerra e/o dell’olocausto. Quindi mi sono sempre posto molte domande sull’argomento e, per quanto lontano da me, mi sono trovato spesso ad addentrarmici e ad immedesimarmi emotivamente.

Quindi la risposta direi che sta nel mezzo, il contesto politico dei nostri tempi mi ha guidato nella scelta del tema e ha riacceso una sensibilità per esso. Il mio vissuto personale invece ha scritto la storia. Mi sono sentito chiamato in causa vedendo quelle immagini di giovani in guerra e non potevo non pensare che in un’altra vita avrei potuto essere uno di loro e che anzi, poco tempo fa le nostre famiglie erano loro.

Di conseguenza, quando si è trattato di scrivere la sceneggiatura di questo corto col mio grande amico (quasi fratello) Alberto, era difficile accettare l’idea di realizzare un lavoro di fretta e di qualità inferiore a quello che ci stavamo immaginando, solo per partecipare ad una “gara”.

Abbiamo quindi deciso che aveva più potenziale quello che avremmo potuto fare con più tempo e dedizione, e che ai festival ci avremmo pensato a lavoro finito, se fosse riuscito.






2) Guardando il tuo corto sembra che poi alla fine non sia così importante sapere la nazionalità dei protagonisti. Non è una guerra fra inglesi e tedeschi, ma è il racconto di quanto le persone, in guerra, in generale, siano capaci di disumanizzarsi. Poi però hai deciso di chiudere il film lasciando spazio a una flebilissima speranza o mi sbaglio? Come mai?


Del tutto vero, la nazionalità non ha nessuna importanza. Anzi durante la scrittura è stato uno degli aspetti che più mi preoccupava avrebbe potuto accentrare troppo il pensiero dello spettatore, mentre per me era importante concentrarsi sui loro sguardi. Che nonostante la divisa erano umani, che affrontavano, ognuno nel proprio modo, una situazione difficile, nel tentativo di sopravvivere. Il grande tema per me, infatti, è sempre stato quello della paura. La paura che quello che vedo possa succedere anche a me e cosa siamo disposti a fare (e diventare) per evitarlo. Per questa ragione faccio molta difficoltà a chiamarla speranza. Fermo restando che la verità sta negli occhi dello spettatore, per me è più una consapevolezza. Poi certo, la consapevolezza può portare a dei cambiamenti, ma in quel finale la speranza può crearsi caso mai nello spettatore e credo che il protagonista abbia più una realizzazione sulla realtà che lo circonda.



3) Ho molto apprezzato la tua scelta di non sottotitolare il tedesco. Mi ha fatto molto empatizzare con la tensione che vive il protagonista. Ecco, mi piacerebbe sapere: come hai costruito l'atmosfera di questo film? Da cosa sei partito? Avevi delle reference?

 

Grazie mille, l’intento era proprio quello fin dall’inizio. Già nella scrittura eravamo sicuri che i dialoghi non sarebbero stati sottotitolati, proprio perché ero certo che questo corto sarebbe stato tutto dal punto di vista del protagonista, anche visivamente parlando. La camera è sempre alla sua altezza, vediamo sempre solo quello che lui può vedere e non vediamo quello che a lui rimane celato. Le uniche poche eccezioni sono volutamente riferite al ragazzino tedesco del finale, con cui era importante empatizzare in modo diverso, proprio per dare la sensazione che lui e il protagonista fossero più simili, anche dal punto di vista della camera. Per quanto riguarda l’atmosfera un grande consigliere è stato sicuramente Atonement (Espiazione) di Joe Wright e in parte anche 1917 di Sam Mendes.

Fin da subito con Mattia (DOP) volevamo distanziarci dal classico look del film di guerra con i colori desaturati. Al contrario eravamo convinti che il contrasto tra la pace serena della natura e l’atrocità di alcune scene avrebbe amplificato il senso di orrore di alcuni momenti, trasformando anche il sole, da simbolo di vita, in un faro bollente che mette luce sulla realtà.

Inoltre, non è detto che l’orrore lo si debba affrontare sempre in un contesto cupo, certe cose capitano e basta a prescindere dall’atmosfera.






4) Il film si presenta come produttivamente molto complesso, eppure tutto è partito con un crowdfunding. Praticamente l'hai autoprodotto. E, oltre a girarlo, ti sei occupato anche delle musiche (e hai lavorato agli effetti speciali)? Quali sono le difficoltà principali per chi vuole produrre un corto così ambizioso, oggi, in Italia, secondo te? È utile saper fare tante cose?

 

Sì, il corto inizialmente l’avrei dovuto produrre completamente io dal punto di vista economico, poi però mi sono dovuto arrendere al fatto che un piccolo aiuto l’avrei dovuto accettare per portare a termine tutta la post-produzione. È nata così la nostra roboante campagna su Indiegogo! Ma a prescindere da tutto, ci tengo a dire che questo lavoro definirlo solo come “autoprodotto” o realizzato tramite “crowdfunding” sarebbe sbagliato. Uno degli investimenti più grandi di questo corto è stato fatto dalle persone che hanno partecipato, e lo dico davvero. Senza il tempo, la professionalità, la fiducia e la passione messa da tutti quelli che mi hanno aiutato, non ci sarebbe stato capitale che avrei potuto investire per realizzare questo corto.


Forse la difficoltà più grande per me è stato il poco tempo reale di set per poter girare tutto, ovvero quattro giorni. Ma devo anche onestamente dire che la mia grande fortuna è stata (ed è) avere un gruppo così serio e devoto di cui mi fido così tanto e per cui c’è un grande affetto condiviso fra tutti che ci permette di spingere sempre di più l’asticella di quelli che consideriamo i nostri limiti.


Essere molto poliedrici aiuta sicuramente a comunicarsi fra tutti riparti, aiuta ad essere più creativi nell’insieme, aiuta ad avere entrate esterne che finanziano i tuoi progetti, aiuta a tagliare alcuni costi perché te ne occupi tu (come i VFX), aiuta ad avere molte frecce al proprio arco per trovare soluzioni ai problemi che ovviamente nascono costantemente sul set, ma non aiuta nel delegare, che invece a mio parere, almeno nel mio caso è fondamentale per superare alcuni limiti. In questo ha aiutato molto la fiducia che ho nelle persone con cui lavoro e su questo sono stato molto fortunato. Personalmente non credo di avere abbastanza esperienza per poter delineare delle difficoltà che il nostro paese mette di fronte ai giovani registi nel realizzare un progetto di questo tipo, dato che fino ad oggi ho lavorato in una bolla auto-costruita e le difficoltà che abbiamo affrontato non le assocerei solo al fatto di averlo realizzato in Italia. Sono certamente a conoscenza dei problemi che si possono avere nel nostro paese nel trovare fondi per progetti di questo tipo ed è per questo che fino ad oggi ho evitato tutto questo, ma mi rendo conto che nel prossimo futuro non sarà più possibile. Spero solo di poter affrontare le nuove sfide che arriveranno con almeno alcune delle persone di cui ho raccontato.



5) Abbiamo deciso di promuovere questo tuo incredibile lavoro in una sezione che ha come ispirazione Fabrizio De André. Come sai, Daisy Bullet, mi ha ricordato molto "La guerra di Piero". Qual è il messaggio che vuoi mandare con questo corto? Ci sono connessioni con il classico intramontabile della canzone italiana?

 

Connessioni mi rendo conto che è invitabile trovarne anche solo per come viene inscenato il finale del corto. Ammetto però che durante la scrittura, ritrovandoci in una situazione simile al finale della canzone di De André, ci siamo distanziati volutamente. Il motivo è presto detto, faccio difficoltà a dire che ci sia un messaggio che voglio mandare con questo corto. La verità è che ognuno di noi può avere delle solide motivazioni per vedere la guerra in modi diversi che fra loro si contrastano. Quello che cerco di ottenere sempre quando scrivo qualcosa è far mettere nei panni di qualcuno lo spettatore. Non dargli una risposta, al massimo fargli porre delle domande. Ecco perché il finale ha dei feriti e non dei morti. Sono virgole non punti. Questa cosa la penso davvero, infatti se proprio devo rivelare un messaggio che cerco di mandare con questo corto, non sarebbe solo per questo ma probabilmente anche per i futuri e si tradurrebbe con: è tutto molto più complesso di quello che sembra. Che, se provi a viverlo vedrai che almeno per un momento ti sentirai in difficoltà, non saprai cosa fare. Poi però da qui a dire cosa, per me diventa impossibile. Credo sia molto più forte ed emozionante il potere di una riflessione che quello di una soluzione.

Siamo esseri in grado di pensare e di empatizzare con chiunque, solo che il mondo in cui viviamo spesso fa di tutto per non farcelo fare.




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